La
donna se ne va sbattendo la porta. Lui va verso il salotto,
strascicando i piedi e massaggiandosi la fronte. Vuole mangiare
qualcosa, prima di andare a letto, ma si accorge che ovviamente Katia
non gli ha lasciato niente di pronto. Tira fuori dal freezer una
pizza congelata e la caccia nel microonde per tre minuti. Ne mangia
metà, tagliandola a fettine con le posate, poi non ha più fame e la
butta nel cestino dell'umido. Va a stendersi nel letto, dopo essersi
tolto la giacca e i pantaloni, ma non riesce e rilassarsi. Si gira e
si rigira, sbuffando. Prova a massaggiarsi ancora la testa,
concentrandosi sull'improvvisata auto-pranoterapia. L'imposizione
delle mani però ha scarso successo. Allora si alza, va in cucina e
pesca da sopra un mobile una bottiglia di brandy impolverata che non
toccava da un bel po' di tempo. Se ne versa un dito in un pregiato
bicchiere di cristallo. Ci mette due minuti a finirlo, a piccoli
sorsi, poi se ne versa un altro e lo secca di schianto, alla goccia.
Ritorna verso il suo letto a due piazze, bianco. Si distende a pancia
in su, coi piedi incrociati, imponendosi di restare in quella
posizione. Il respiro si regolarizza lentamente e il sonno finalmente
ha la meglio. Ma è un sonno agitato, che lo fa sudare.
Vago,
vago, vago vagare. I piedi posati sul tappeto di foglie marce e rami
secchi e spinosi. Cespugli che crescono come brufoli, strani animali
pelosi grigio topo e marrone cervo, fiori grandi e piccoli, uteri di
petali e polline, insetti pelosi, pungenti, ronzanti. Pietre e sassi
e macigni e castagne. Fronde ovunque. Parole sconnesse, mentre il
bosco è verde e un po´ scuro. Gli alberi sono tanti, sono ovunque e
sono alti, tanto alti, così tanto che non hanno fine, si vedono solo
i rami e le fronde spezzati dal sole, dalla luce che però non riesce
a passare, si intuisce e nient'altro. Alzare la testa fa male, la
luce ferisce gli occhi, meglio guardare avanti, sì meglio, molto
meglio, molto meglio. Quercia che enorme ti stagli sul mio cammino,
ma quale cammino, non c'è sentiero da seguire, non c'è traccia da
fiutare, non ci sono orme, solo foglie secche che pestate non fanno
rumore, larice e pioppo e ontano che insieme bisbigliano con la voce
del vento, poi urlano, e cantano, e ancora sussurrano e nascondono la
possente voce, la celano alle orecchie facendo coppe con le loro mani
ramose. Anche il castagno si fa sentire, ha l'ugola dolce e un po'
amara come il miele che stilla dal suo fiore, un suono strano che
esce ma da dove? Ah, sì, ecco da dove, dalla bocca che altro non è
che la base di un ramo tagliato, antico segno di ferita di guerra
ch'egli porta fiero come un vecchio la benda sull'occhio, cicatrice
glassata di resina che ora si stringe, s'allarga, s'ovalizza ed
emette quest'intenso sibilo a me diretto, son sicuro. E come lui
anche i piccoli sambuchi attaccati alla terra da minuscoli piedini
legnosi, hanno gl'occhi che son strane bacche viola scuro, di quelle
che s'usavano quando si era piccoli per giocare a cerbottane, e te li
ricordi i segni che lasciavano indelebili sulle magliette? Certo che
li ricordo signor sambuco e signora quercia e ricordo anche le botte
della mamma, che non riusciva più a lavarle. Meli e peschi e due
ciliegi altissimi coi fiori bianchi bianchi, un profumo come di donna
che mi stordisce di dolce, troppo per me tutto assieme. Liane verdi
come collane su spalle di eleganti signore robinie, bracciali di
pigne per le spinose madame marroni e un po' altezzose, e sandali di
muschio odoroso a ornare piedi di radici aggrappate al terreno.
Gruppetti di salici e roveri antichi, loro si che gridano, GRIDANO,
mi urlano in faccia arrabbiati e so che forse hanno ragione e lo
spavento che per fortuna passa, non appena davanti alla salubre
autorità dell'abete rosso. Oh, signor abete, la prego, mi perdoni,
non so cos'ho fatto anzi sì forse lo so ma mi perdoni, sono solo un
uomo, debole e inutile di fronte a voi grandi creature amiche del
tempo che conoscete i segreti del mondo e le voci degli uccelli e non
avete paura del freddo e ve ne state qui sotto il sole e le stelle e
non fate mai nulla di male vi prego, perdonatemi, son solo un'uomo
ch'è rimasto bambino. Abete che storce la bocca e alza un ramo e
m'indica la strada con una delle sue secche dita, allora mi giro e
imbocco la via e le voci si moltiplicano, ancora più forti invadono
la mia testa e rimbombano come in una caverna umida e forse non sono
solo quelle degli alberi e del bosco, ma tante sono di persone, ma
non capisco e son confuso, mentre eleganti betulle fanciulle ridono
con voci chiare e squillanti al corteggiarle di olmi e ippocastani, e
poi cedri, e frassini, e un faggio grosso e nodoso.
"Quanto
sono deboli queste tue mani tozze, corte, bianche, mani morbide di
chi non ha mai lavorato un giorno sudando per lo sforzo, mani
abituate solo a scrivere e firmare, mani adatte a contare i soldi, ma
che non sanno cucinare ne accarezzare come si deve, come sono
ridicole e inutili, inesperte e senza calli, hai i capelli grigi ma
le mani come quelle di un bambino, vulnerabili al confronto della
corteccia del tasso, imponente tasso che così tanti rami ha donato
per la nobile causa Sioux o Cheyenne, quanti dei suoi arti son
diventati archi e frecce di grandi capi, nobili guerrieri dei quali
il bosco e il fuoco e il vento e la terra non si scorderanno di
certo. E invece tu! Guardati, sei solo un'uomo ch'è rimasto bambino,
chiedi perdono, saremo misericordiosi, noi custodi del tempo e figli
dell'acqua piovana, che all'occorrenza sappiamo farci dimore per la
fauna bisognosa che ci sa rispettare. Voi, invece, ci avete
insultati, disprezzati, superbamente avete creduto di poterci
considerare oggetti, avete fatto finta di non sapere di tutta la vita
che scorre nella nostra linfa verde, che traspira dalle nostre
foglie, che si libera nutrendo l´aria che respirate, dei i nostri
frutti dolci che lasciamo cogliere a voi, uomini avari, che siete
senza cuore, ma diventate docili e al nostro cospetto non fate che
frignare, perchè siete proprio rimasti bambini".
Il
bosco ora è silenzioso, il cammino si fa più solitario, gli alberi
son più radi e guardano discreti. Passi rumorosi, qualcuno che
corre, spezzando rametti e schiacciando le foglie secche. Tante
facce. Giovani, vecchi, donne, alti e bassi e grassi e magri che
corrono nella mia direzione e mi superano quasi senza vedermi, poi
qualcuno si ferma a cercare per terra le ghiande e le nocciole. Parlano
di discorsi che tutti i giorni si fanno a casa o al bar o in chiesa.
Adesso volto
la testa lentamente, non c'è più nessuno, solo un ragazzo magro,
comparso silenzioso alla mia sinistra. Anche lui ascolta l'abete.
Anche a lui il vento pregno di voci scompiglia i capelli. Ma nel suo
sguardo non c'è il mio rispettoso timore.
Proprio
così. Nel mio sguardo non c'è il tuo rispettoso timore, stolto
vecchio. Guardati, sei viscido e indifeso come una lumaca.
“Taci,
ragazzo. Non ti permettere di giudicare. Anche tu sei colpevole. Non
fai niente per il tuo mondo, non rispetti gli altri e nemmeno te
stesso, non pensi mai a quello che ti sta intorno. Sei spento come la
tua generazione, sei figlio di tempi malati e poteri muffiti, sei uno
schiavo legato ad un guinzaglio d'oro.”
No,
invece, albero. Non starò zitto. Tutti ci dite che non abbiamo spina
dorsale, che non c'impegnamo per il nostro mondo, dimenticate che
siete VOI ad avercelo consegnato così, conciato peggio che mai. Voi,
vecchi, che avete da spendere sempre mille lodi per i tempi passati,
ma che non serbate mai un consiglio. Dall'alto degli anni, potete
permettervi qualsiasi critica. Io non ci sto. Non mi pento di nulla.
Non tengo a questo posto, a questa vostra terra. Forse una volta sì,
quando ero piccolo, allora mi piaceva giocare nei fossi o sotto i
salici, e conoscevo l'odore dei prati. Ma sono invecchiato
rapidamente, perchè il mio orologio va molto, molto veloce.
“Non
incolpare noi degli scempi dei quali la tua razza è causa! Io ti
conosco, ragazzo. Come ho conosciuto molti uomini prima di te. Tanti
quante sono state le mie foglie. Vi vedo nascere, crescere, diventare
vecchi e poi, proprio come foglie, appassire e morire. Una vita delle
vostre, per noi, non dura che il tempo d'una stagione. Eppure tu sei
molto giovane, e dai vecchi hai preso solo la parte peggiore: la
rassegnazione, la paura della fine, il timore di non aver fatto il
massimo, la voglia di lasciar perdere. Potevi imparare la saggezza,
il saper ascoltare, la cortesia di chi sa come funziona il mondo. Hai
sbagliato, ma ti puoi ancora correggere.”
Il
ragazzo si sveglia. Si rigira nel divano, ancora immerso nel
dormiveglia, preso dall'agitazione del sogno. Si ranicchia in
posizione fetale. Un lungo brivido lo fa tremare. Sbuffa, si rende
conto di essere sudato. Ha ancora i vestiti addosso. Prende la
coperta da un lembo e la getta via, scornato. Rabbrividisce ancora,
questa volta più forte. Il sudore freddo appiccica i vestiti alla
pelle. Si passa una mano tra
i capelli radi, da un'occhiata all'orologio. Si alza e spegne la tivù
ancora accesa, sintonizzata su una rete locale. Passa per il corridoio, arriva in camera sua e
si chiude dentro.
Ti capita mai d'incontrare persone in sogno?